“Disabilità e povertà nelle famiglie italiane”

di Caterina Landolfi

Il 31 gennaio 2024 scorso, presso l’Archivio storico  della Presidenza della Repubblica a Roma, è stata presentata la prima ricerca condotta in Italia sul tema “Disabilità e povertà nelle famiglie italiane”  realizzata da CBM Italia e F. Zancan.

La ricerca ha l’intento di esplorare il nesso tra povertà e condizione di disabilità. Si tratta di una ricerca sia quantitativa che qualitativa. Ha analizzato un campione di 272 persone con disabilità che vivono in famiglia di età compresa fra i 14 e i 55 anni (età media 33) residenti in Italia e distribuite al sud, al centro e al nord. Sono stati somministrati prima, un questionario di tipo quantitativo e poi, un’ intervista di approfondimento di tipo qualitativo. 57 persone con disabilità e familiari si sono resi disponibili ad essere intervistati.

Il Direttore di CBM Italia Massimo Maggio e il Presidente della Fondazione E. Zancan Tiziano Vecchiato,  hanno dichiarato che più che una ricerca intesa come studio statistico si è trattato soprattutto di un ascolto continuo, di un collaudo di democrazia partecipativa dal basso: “abbiamo cercato di dare voce alle famiglie nel senso esistenziale, di quello che vivono ogni giorno”.

Sintetizzando al massimo, ne è emerso che l’investimento in Servizi (sorprendentemente è emerso che l’aiuto economico non è al primo posto, infatti il 39% degli intervistati chiede aiuti socio-sanitari e il 37% socio-assistenziali) diventi promozione di umanità in modo da trasformare l’ambulatorio in laboratorio e nel valorizzare ogni persona con disabilità perché si trasformi da spettatore ad attore.

. Bisogna promuovere un vero progetto verso l’autorealizzazione e non solo per il semplice mantenimento.

. Bisogna trasformare l’housing in living con soluzioni condivise, favorire l’inserimento lavorativo ove è possibile, ecc.

Sono le famiglie che parlano, non i ricercatori. In questo modo emerge in modo chiaro la necessità che l’approccio alla disabilità deve abbandonare l’impostazione assistenzialista e medico-sanitaria che ha prevalso finora, per uscire dalla gabbia diagnostica in cui rimangono intrappolate le persone con disabilità e le loro famiglie. Insomma c’è necessità di aiuti che aiutino ad aiutare, cioè di strumenti per poter inserirsi, ognuno secondo le proprie capacità, nella società. Le nostre politiche sociali sono  povere da decenni sotto questo punto di vista. Vince il “prestazionismo”. Ma le prestazioni non sono le soluzioni. Bisogna chiedere direttamente alle persone: “chi ti aiuta quando non ce la fai? Quando hai una necessità? Quando ti ammali?” e quindi individuare gli strumenti più efficaci.

Quasi una famiglia su quattro non ha una rete su cui contare (parenti, amici, volontari, ecc.): la vita si trasforma in un confinamento esistenziale che costringe a vivere più soli di quanto si meriterebbe. Al contrario, non sentirsi soli è la molla per sviluppare le proprie capacità e le famiglie con disabilità potrebbero essere di aiuto nei confronti di altre famiglie, grazie alle esperienze accumulate.

Nonostante l’attenzione all’ascolto, tecnicamente la ricerca è molto articolata e approfondita:

. conferma l’esistenza di una correlazione tra condizione di disabilità e povertà. La povertà non è definita soltanto con parametri di tipo economico, ma anche di tipo sociale: deficit di salute, di istruzione, di incapacità ad acquisire risorse, di mancanza di condizioni abitative adeguate, di mancanza di relazioni significative, di supporto adeguato da parte dei servizi;

. mette in evidenza le richieste delle persone con disabilità e delle loro famiglie e cioè: più servizi, progetti di vita indipendente e supporto ai caregiver. Questi ultimi dichiarano che occorrono forze fisiche e psichiche per affrontare la disabilità dei propri cari. I ricercatori hanno riscontrato che non è semplice dare voce ad una famiglia con disabilità grave, c’è una certa reticenza a parlare (infatti solo alcune famiglie hanno acconsentito ad approfondire attraverso l’intervista) tuttavia dalla ricerca emerge che esse hanno una resilienza molto grande. Quindi, lo ripetiamo, le istituzioni non devono limitarsi a sostenere, ma soprattutto devono valorizzare l’esperienza accumulata e vissuta dalle famiglie e non mortificarla escludendole da una reale co-progettazione, come avviene oggi. Confermando che ad oggi, il nostro sistema di welfare si basa ancora sulla famiglia che svolge un ruolo tanto importante quanto, se non di più di quello svolto dallo Stato, le famiglie chiedono servizi più umanizzanti, qualificati, flessibili e personalizzati. Di conseguenza, risulta evidente che i servizi ad oggi erogati non sono per niente adeguati ai bisogni e alle richieste.

I dati confermano senza ombra di dubbio quello che Confad ormai sostiene da anni:

– l’impegno della cura nei casi di disabilità grave e gravissima è a carico delle famiglie, in particolare delle donne. Questo non vuol dire che Confad vuole “cristallizzare” un sistema di welfare basato sulla famiglia: si tratta del contrario. Confad promuove l’emancipazione dei caregiver familiari. Si tratta allora di trasformare i Servizi, come si è detto, e contemporaneamente di dare supporto ai caregiver familiari stessi.

Il Direttore Generale di CBM Italia Massimo Maggi, si augura che per le istituzioni e le organizzazioni questa ricerca rappresenti un punto di partenza per attuare politiche di welfare sociale e lavorativo, per aumentare la consapevolezza dei diritti delle persone con disabilità in linea con la Convenzione ONU e per ampliare e realizzare una vera e propria cultura dell’inclusione.

In particolare, CONFAD auspica che la ricerca sia utile per individuare, finalmente, la platea dei beneficiari della legge sui caregiver familiari al Tavolo di lavoro insediatosi il 17 gennaio scorso.

Per chi volesse approfondire e consultare lo studio completo può farlo >> QUI <<